Etimologicamente, il termine emozione deriva dal latino ex-moveo, ossia rimuovere, allontanare, scacciare; verbi che denotano un movimento da “dentro” verso “fuori”.
Per vivere bene con le nostre emozioni, per poterle gestire e, quando necessario, controllarle dobbiamo prima di tutto imparare a riconoscerle e ad accettarle.
Se viene vissuta e scaricata in modo adeguato l’emozione non farà danni, se invece viene incassata passivamente, “mandata giù”, ignorata e poi dimenticata, rimarrà dentro come un macigno che non mancherà di causare problemi, a lungo termine, ripercuotendosi sulla salute fisica o sulla tranquillità d’animo.
Sviluppare la competenza emotiva nei bambini non è un passaggio automatico né privo di difficoltà. Quando le madri sono portate ad esprimere prevalentemente emozioni negative, sembra che anche i figli risultino meno capaci di esprimere emozioni positive. I figli di madri che esprimono spesso emozioni positive, invece, dimostrano una competenza maggiore relativamente alle strategie di regolazione delle emozioni: se sono delusi non reagiscono solo in maniera negativa e sono più pronti ad imparare le regole del controllo.
Un bambino che affronta le emozioni più dolorose e difficili da solo avrà un vissuto interiore che rimarrà “suo”: non ammetterà di sentirsi triste, spaventato o arrabbiato, poiché si vergognerà a doversi raccontare, temendo di essere rifiutato o frainteso. Spesso diciamo ai bambini di “non piangere”, “non fare il cattivo”, “non avere paura”, ma non gli insegnamo quasi mai un modo alternativo di gestire l’ondata di emozione, di qualsiasi natura essa sia.
Inserire le emozioni anche nelle conversazioni permette ai bambini di vivere un maggior numero di esperienze emotive, di fornire la possibilità di riflettere sulle esperienze, di sviluppare capacità di ascolto e di empatia e di “fidarsi dei segnali e delle informazioni elaborati dai suoi processi emozionali”. Lo sviluppo della competenza emozionale permette quindi non di ignorare o seppellire le emozioni, bensì di iniziare a controllare quelle negative, come la rabbia, l’aggressività.
Le emozioni quindi fanno parte delle esperienze umane e incidono sulla nostra vita, sul nostro comportamento e sulle nostre abitudini. Spesso l’alimentazione è legata a determinate situazioni emotive e poche persone considerano il mangiare soltanto come un mezzo di nutrimento. In realtà nessuno di noi riesce ad essere del tutto distaccato od emotivamente indifferente al cibo, perché la fame spesso si confonde con le emozioni ed il cibo viene utilizzato per anestetizzare i sentimenti negativi provocati dalle situazioni difficili e per far fronte allo stress della vita quotidiana.
La mancanza di sensazioni piacevoli che dovrebbero derivare dalle attività quotidiane e dai rapporti con gli altri, crea vuoti che si tende a riempire in modo errato con il cibo escludendo la possibilità di ricorrere a modalità diverse di gratificazione ,quindi per distinguere in modo adeguato la fame biologica dalla fame nervosa è necessario aver imparato ad ascoltarsi e a rispettare i propri bisogni. Spesso infatti mangiamo in modo compulsivo perché ci sentiamo incapaci di affrontare le emozioni, si mangia anziché dare sfogo al dolore, alla rabbia e alla gioia. Sembra che gli episodi di fame emotiva siano più ricorrenti fra le donne ed in relazione a vissuti d’ansia, inquietudine, rabbia, solitudine, disagio, o comunque a sentimenti negativi verso se stesse.
La “fame nervosa” è il termine comune per indicare ciò che gli studiosi del comportamento alimentare definiscono eating emozionale, cioè “la situazione vissuta da quei soggetti che mescolano le emozioni con l’assunzione di cibo e usano il cibo per far fronte alle emozioni che ogni giorno incontrano”.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato la causa dei comportamenti alimentari anomali: essi ritengono che la fame nervosa si sviluppi nella prima infanzia. Secondo questa teoria, è essenziale che la mamma capisca quando il bambino avverte un reale bisogno di mangiare e quindi soddisfi la fame porgendogli il seno o il biberon, evitando di offrirgli il cibo quando il pianto infantile non è effettivamente una conseguenza della fame. Se questa giusta interpretazione della mamma non si verifica, è probabile che il figlio crescerà senza essere capace di elaborare una giusta identificazione della fame e non saprà distinguere tra questa ed altre sensazioni. Inoltre se il cibo fin dall’infanzia viene utilizzato come gratificazione, conforto, sostituto dell’affetto, arma di ricatto, di offesa, può insorgere un rapporto distorto e alterato con il cibo e con l’atto di alimentarsi in generale. Così, nell’età adulta diversi stati d’animo come l’ansia, la tensione, la collera verranno interpretati nel modo sbagliato con conseguente assunzione eccessiva di cibo.
L’eating emozionale non è scatenato da una sola causa: ne sono all’origine fattori biologici, psicologici e culturali.
Ecco una lista dei modelli tipici di soggetti con eating emozionale:
Mangiatori tristi: l’individuo è triste e tenta di sconfiggere la propria tristezza mangiando. La tristezza in genere ha origine da un’analisi realistica di un fatto spiacevole, di una perdita o di una delusione e può essere considerata come la risposta fisiologica dell’organismo ad uno di questi eventi.
Mangiatori ansiosi: in questi soggetti è tipico il legame intercorrente tra ansia e cibo, specialmente se l’ansia deriva dall’apprensione o dalla preoccupazione per un evento futuro che sarà spiacevole o pericoloso. L’ansia è una sensazione diffusa vissuta come una minaccia indefinita per il benessere. Il soggetto ansioso tenta di alleviare con il cibo i sintomi di sudorazione, agitazione, tensione, irrequietezza.
Mangiatori annoiati: la noia è probabilmente la più diffusa forma di mediazione emozionale nell’alimentazione ed è spesso associata all’eating emozionale. Per i mangiatori annoiati, infatti, il cibo è l’unico motivo legittimo per poter interrompere un’attività noiosa.
Mangiatori soli: questi soggetti usano il cibo come il sostituto di qualcosa che manca: un compagno, un amico o qualcuno con cui condividere la vita. Purtroppo la situazione viene a peggiorare con il conseguente aumento di peso, poiché aumentano le difficoltà a relazionarsi adeguatamente con gli altri.
Mangiatori arrabbiati: la rabbia, espressa sotto forma di risentimento, gelosia, indignazione o frustrazione può essere associata all’eating emozionale. Generalmente questi sentimenti derivano dal fatto che il soggetto non riesce ad ottenere ciò che desidera e, quindi, mangia per scaricarsi e per sfogarsi. Il soggetto talvolta soffre di dolori allo stomaco o ai muscoli. Spesso il mangiare in maniera esagerata è l’espressione della rabbia e non un modo per ridurla.
Mangiatori celebrativi: fanno parte di questa categoria i soggetti che trovano impossibile gioire di qualcosa senza abusare con il cibo, e hanno molta difficoltà nel prendere parte ad un evento senza mangiare o bere in eccesso.
5 Dicembre 2014
a cura del Servizio Liberamente Coop. Il Millepiedi Rimini