Ciascuno di noi, qualche giorno o, talvolta durante dei lunghi periodi ha dovuto confrontarsi con la sofferenza, quella provocata da un incidente, da una malattia, da una separazione, da un lutto, da una situazione intollerabile, ecc. Come abbiamo reagito a questo? Come è possibile reagire in modo attivo e non passivo? In un primo tempo è inevitabile che si possa reagire con rifiuto e ribellione, soprattutto per mantenere intatta una parte di noi stessi. La rabbia è una difesa dal vivere la sofferenza perché viverla significherebbe doverla riconoscere.
Spesso la respingiamo all’esterno. Il nostro primo riflesso è dunque il rifiuto e questo rifiuto è legittimo (autorizzato ad esistere)! Il rifiuto dell’evento, fonte della sofferenza, conduce immediatamente a prosciugare la linfa vitale (spesso si sviluppano sintomi depressivi, ansia, stanchezza, insonnia, inappetenza, ecc). Spesso si assiste ad una vera e propria perdita della realtà: esistono dei momenti in cui l’intollerabilità dell’accaduto ci costringe a chiudere gli occhi come se non fosse mai successo. Ma, divenuti ciechi, non possiamo che scontrarci con la realtà, facendoci sempre più male. E’ proprio per questo motivo che è necessario che il rifiuto lasci il posto gradualmente all’accettazione, che è essenzialmente il dare valore alla sofferenza.
Lo spostamento progressivo del pensiero occidentale verso l’individuo, la sua autonomia, la sua indipendenza emotiva, ha minato senza dubbio l’efficacia che ha sempre avuto la condivisione ( dal latino: cum-dividere= dividere insieme) e la compassione (dal latino: cum-pati= patire insieme).
Il dolore non te lo devi tenere dentro, ma deve uscire. Spesse volte si prova il sentimento di essere stati derubati della propria vita, arrivando a dare talmente tanto potere a questo dolore da permettergli di gestirla interamente la propria vita! Il dolore muto è la stampella su cui poggiarti, mentre quello che si trasforma in parola è passaggio e fa crescere.
Ma chiedere a qualcuno o a se stessi di accettare il dolore non equivale a porsi al di sopra dell’avvenimento, fare come se non avesse avuto luogo, ricoprirlo di un velo e volerlo già dimenticare. Anzi quest’oblio non farebbe che raddoppiarne l’intensità. Se il rifiuto è legittimo, se l’accettazione è un rimedio e se la designazione di un responsabile aggrava ancor di più il mio malessere, l’unica soluzione possibile è affrontare la nuova situazione. La sofferenza determina una sorta di sparti acque tra un Prima e un Dopo. Il prima non ci può essere più e la fatica più grande è quella di guardare al presente, cercando di dargli un valore.
Affrontare vuol dire lasciarsi trasformare dal contesto nuovo che sicuramente non potevamo prevedere e che ci si impone, e di conseguenza vanno inevitabilmente reinventate tutte quelle relazioni interpersonali ormai modificate dalla nuova situazione.
Cosa si può imparare dalla sofferenza?
La sofferenza ci fa perdere qualcosa della nostra padronanza e delle nostre certezze. Spesso si perde il controllo e ciò che avevamo previsto di fare o intraprendere diventa impossibile. Ma questo disorientamento doloroso ci può condurre a rivalutare le priorità della nostra vita. Le cose e le persone non avranno più lo stesso colore, ma questo non sarà meno vivo. Sembra paradossale, ma a volte la sofferenza può essere l’occasione per poter guardare con occhi diversi, scoprendo nell’incertezza risorse che non avremmo mai potuto scoprire e conoscere. Spesse volte ci troviamo ad assistere passivamente al proprio e altrui dolore, ma senza viverne la sofferenza. Il dolore non è mai insignificante perché parla di Noi, dice che qualcosa va rivisto, ripensato, che ci ha fatto male, che dobbiamo interessarci a quello che sta accadendo, cambiare qualcosa. Il poter raccontare il proprio dolore è sempre una vittoria su di esso!
Come porsi di fronte alla sofferenza altrui?
Alla domanda se può una persona trasformare il dolore altrui la risposta è netta e negativa. Egli può consentire tuttavia che quella sofferenza acquisti parola e sia contenuta, che non sia solo una schiacciante condizione esistenziale, e con la sua Presenza consentire che venga oltrepassata.
Entrare in contatto con la sofferenza dell’altro è molto faticoso, perché significa entrare in contatto con la propria impotenza e la propria disperazione. Ma questa sembra essere una cosa necessaria per far si che l’altro si possa sentire compreso e accolto.
Nella mia esperienza personale di terapeuta ho imparato che bisogna avvicinarsi di più alle persone che fanno richiesta di aiuto, piuttosto che alle loro diagnosi. Ho pensato erroneamente che ci potesse essere qualche libro o qualche corso specifico che mi potesse suggerire cosa si doveva dire o fare quando si incontrano persone che quotidianamente devono lottare contro la morte. E ce ne sono state tante di letture e diversi corsi, ma nessuno è stato così esaustivo! Alla fine bisogna solo decidere se si è disposti a starci con quel dolore, a impantanarsi dentro tutta quella melma, con la nostra stessa paura di venirne assorbiti! Ho pensato potessero essere gli stessi sentimenti che prova una persona a cui hanno diagnosticato una grave malattia o che sta affrontando un evento traumatico e doloroso: la sensazione di non avere più una via di uscita, un senso di impotenza e di perdita di speranza che la accompagna ogni giorno, la sensazione di camminare su un campo minato, il non riuscire ad intravedere più un futuro, la preoccupazione per i propri cari e tanto altro ancora. Penso che l’aiuto più grande che può dare chiunque abbia a che fare con la sofferenza altrui sia proprio quello di accompagnare la persona in ciò che da sola sarebbe ancor più difficile da fare e cioè permettergli di esprimere l’indicibile, ciò che ciascuno di noi probabilmente cerca di negare a se stesso perché, se ogni giorno noi pensassimo di dover morire sarebbe non più un vivere, ma un sopravvivere! E nel caso di queste persone questo pensiero è spesso costante e quotidiano, diventando la tortura più grande!
Bisogna fare i conti non solo con l’incertezza che proviamo, sia noi che l’altro, ma bisogna “starci”, che significa non lasciarlo solo a fronteggiare i suoi pensieri di morte e le sue domande circa un futuro incerto e a volte infausto, renderli comunicabili e condivisibili.
Noi non abbiamo nulla da fare e niente da dire. E’ nel silenzio della relazione che la trasformazione avviene. Noi abbiamo, attraverso la nostra Presenza, aperto la porta e le finestre della sua prigione. Se il silenzio è attento e sereno, libero da ogni angoscia o volontà di dover fare qualcosa, questo silenzio è sufficiente a dare pace alla sofferenza. Ogni parola è pronunciata nel silenzio, ogni parola che si sarebbe potuto dire, ogni parola che non ci si sarebbe potuto immaginare per ridare coraggio, le parole tutte improprie, tutte piene o non abbastanza, il silenzio ne è colmo e questo gli dà la sua forza e la sua intensità.
Spesso il silenzio, se attento, discreto, onesto, rispettoso, può però attenuare la solitudine della sofferenza.
Dott.ssa Valentina Donzelli (Psicologa- Psicoterapeuta)
Servizio Liberamente cooperativa Il Millepiedi