La famiglia è una struttura complessa ed articolata e ha, tra i suoi compiti cardinali, la generazione e l’allevamento dei figli.
All’interno della famiglia nucleare vige una gerarchia che definisce i rapporti reciproci, la distribuzione del potere decisionale e delle responsabilità, i ruoli dei componenti del gruppo: sinteticamente possiamo definire la modalità di tale organizzazione gerarchica con il termine di “organigramma”.
Naturalmente, l’organigramma di una famiglia è una struttura relativamente variabile, conformemente alle fasi che il nucleo vive nel corso del suo sviluppo; per esempio, i genitori hanno responsabilità verso i figli in crescita, ma questi, divenuti adulti, dovranno occuparsi dei genitori stessi nell’età anziana.
Questo sviluppo temporale è scandito da compiti evolutivi, o eventi critici che danno forma, attraverso un rito di passaggio rappresentato dal superamento di un compito, a una nuova configurazione nella vita del soggetto, configurazione che cambierà il sentimento di sé, e le relazioni fondamentali dei suoi rapporti.
Il superamento di ogni gradino evolutivo è un “successo” conseguito dalla famiglia nel suo insieme.
La famiglia è un sistema plurigenerazionale, comprendente almeno tre o quattro generazioni che si intersecano nello spazio della vita; la famiglia nucleare risulta pertanto essere un sottosistema emozionale di un più ampio sistema intergenerazionale, che reagisce al passato e che, nel presente, costruisce un futuro.
Questa prospettiva del ciclo di vita come una dimensione intergenerazionale mette in luce la problematicità di incrociare desideri, aspettative, valori e convinzioni delle generazioni che vivono contemporaneamente.
Dà anche ragione delle mutazioni che un soggetto affronta nel proprio ciclo di vita passando dal ruolo di bambino a quello di nonno; esiste quindi un asse verticale lungo il quale nel tempo vengono trasmessi i modelli di relazione e di funzionamento e un asse orizzontale su cui si possono fondare alleanze e vivere competizioni.
Livelli di stress maggiori si sperimentano quando un evento problematico si innesta sull’asse orizzontale proprio nel momento in cui un conflitto o uno snodo evolutivo pongono difficoltà sull’asse verticale dei rapporti intergenerazionali; vedremo quanto questo concetto ci sarà utile per parlare dell’impatto dell’handicap sulla famiglia.
La nascita di una famiglia avviene attraverso il susseguirsi di fasi; corteggiamento, fidanzamento, matrimonio (costituzione della coppia), nascita dei figli, emancipazione dei figli dai genitori, emancipazione dei genitori dai figli, pensionamento, vecchiaia e morte.
La costituzione della coppia, centrata sul soddisfacimento dei reciproci bisogni, può richiedere un periodo breve o lungo, sereno o travagliato per trovare una sua stabilità, e ha come compito evolutivo la definizione dei ruoli rispettivi per la formazione di un sistema autonomo, differenziato rispetto ai nuclei originari, con il trasferimento dei legami affettivi più significativi dalle figure delle famiglie d’origine al partner elettivo.
La fase seguente, che non sempre si verifica, è quella della nascita dei figli in cui la coppia deve salire un gradino generazionale; si aggiunge al ruolo dei membri della coppia quello di genitori.
Anche i genitori dei genitori, diventando nonni, devono lasciare il posto ai figli nel ruolo di padre e madre.
Ciascun coniuge dovrà inoltre articolare, in se stesso e nella relazione, l’immagine del partner, includendo in essa la funzione genitoriale; i confini di coppia verranno ridefiniti, con possibili aperture verso le famiglie d’origine, implicate in funzioni di supporto ai compiti di accudimento.
Il periodo di allevamento dei figli è caratterizzato dall’accudimento fino al raggiungimento dell’adolescenza; in questa fase accadono due importanti movimenti psichici ossia viene soddisfatto il bisogno dei genitori di sentirsi abili e competenti, essenziale per stabilizzare il loro vissuto di adulti riusciti e i figli costruiscono in questa interazione i fondamenti della loro psiche, i cardini del proprio funzionamento esistenziale.
Ognuno ha un posto nella cerchia familiare, senza che alcuna intimità minacci o emargini un membro dalla relazione con gli altri; il padre avrà per esempio un ruolo essenziale nel garantire una giusta distanza tra madre e figlio, distanza indispensabile per consentire sia una vicinanza protettiva sia una conservazione di una propria “separatezza”, precursore di una possibile individualità per entrambi.
La madre può perdere il proprio equilibrio adulto, se catturata in una relazione totalizzante quale quella implicita in una situazione di accudimento molto impegnativa di un figlio disabile.
Se infatti, di fronte a un figlio sano che procede nel proprio sviluppo, solo la psicopatologia di una madre sofferente e immatura può condizionarne il processo verso l’individuazione, di fronte ad un soggetto ammalato con gravi bisogni di assistenza possiamo osservare un rischio per la madre addolorata di non saper preservare il proprio investimento su aspetti sani della sua vita adulta, investimenti precursori di risorse per lei stessa e per eventuali altri figli.
La fase seguente del ciclo vitale di una famiglia è rappresentata dalla conquista adolescenziale di una progressiva autonomia dei figli fino al loro svincolo dal nucleo originario.
L’adolescente, per tentativi ed errori, procede a una propria differenziazione dai genitori e i genitori dovranno re-investire le energie libere nel legame di coppia, per prepararsi a sostenere la difficoltà del vissuto del nido vuoto.
E’ facile immaginare quale congelamento del ciclo vitale rappresenti un figlio per il quale la differenziazione adolescente è difficoltosa a causa della propria disabilità e i compiti genitoriali di cura non si prevede possano terminare.
L’impossibilità di sperimentare spazi di svago con soli adulti, per esempio, o l’impossibilità di godere di una breve vacanza per la difficoltà di affidare un adolescente o un giovane adulto a se stesso, in assenza di personale educativo disponibile a farsi carico della sua tutela, possono suscitare fratture insanabili nel tessuto coniugale che non vede spazio per rinnovarsi.
La fase successiva è quella in cui la famiglia si configura come una pedana di lancio per i figli ormai adulti verso nuovi legami e nuove realizzazioni.
Questa fase richiede il potenziamento di legami orizzontali della nuova generazione coi pari, e della generazione dei genitori con fratelli e sorelle o con gruppi amicali, garanzie per i figli di non essere indispensabili alla vita emotiva dei genitori.
In quest’epoca della vita, i genitori e i figli adulti sperimentano una forma mutuale e simmetrica di legame; anche il rapporto fraterno tra i figli subirà una ri-negoziazione, con l’affievolirsi degli aspetti gerarchici tra maggiori e minori e l’auspicabile diminuzione dei temi di gelosia per il possesso dell’attenzione dei genitori.
Nella famiglia con un figlio disabile, il movimento verso questa ridefinizione e svincolo apparirà problematico per i fratelli che lasciano a casa, per poter procedere nella loro scelta emancipativa, genitori stanchi e anziani con il carico di un figlio portatore di handicap.
Essi si sentiranno egoisti e traditori e i genitori consapevoli, dovranno fare un grande sforzo su se stessi per incoraggiarli ad andare verso la vita senza guardarsi indietro.
In famiglie in cui il compito di protezione e cura di un figlio disabile non sembra avere termine, quando i figli sani costituiscono nuovi nuclei,lasciano i genitori ancora impegnati in un compito accuditivo.
Con l’ingresso di nati della terza generazione, la simmetria del legame tra la coppia giovane e la coppia adulta, può venir messa alla prova dalla necessità di ricevere aiuto collaborativo in entrambe le direzioni.
Si demarca spesso una parziale inversione dei ruoli dove i giovani genitori si sentono sovraccarichi per compiti collaborativi verso il disabile, compiti in competizione con i propri doveri di recente genitorialità.
A essi non è concesso di abbandonarsi alla protezione supportiva ed esperta dei nonni, poiché questi si trovano ancora impegnati sul proprio fronte di genitori.
Tuttavia, si nota che spesso questi nonni particolari, ancora genitori a tempo pieno, faticano ad accettare la diminuzione del proprio potere sulla vita dei figli sani, di cui sentono ancora il bisogno come alleati, e conseguentemente, faticano ad affiancarsi a loro nei compiti di accudimento dei nipoti in mera funzione di supporto.
Ultima fase è quella rappresentata dal ricostituirsi della coppia anziana che mette in comune le proprie forze per condividere e sopportare il processo dell’invecchiamento, della malattia e della morte.
Fase molto ansiogena e problematica per i genitori del disabile, i quali faticano ad abbandonarsi al proprio declino perché chiamati a provvedere a un figlio che non potrà badare a se stesso; i fratelli del disabile saranno quindi chiamati in causa.
Non è difficile immaginare quanto l’evento stressante di un handicap in un figlio comporti negoziazioni e aggiustamenti in questo naturale fluire del ciclo vitale di una famiglia.
Un figlio con un handicap, fisico o mentale, pur limitandone l’autonomia, non ne annulla comunque una parziale evoluzione verso forme ed esigenze di vita adulta.
La disabilità presentata da un figlio non consente adattamenti familiari relativamente stabili, proprio per la natura evolutiva del soggetto e delle sue necessità; il carico lavorativo ed emotivo, già elevato in condizioni normali, diventa difficilmente tollerabile quando un figlio dà gravi preoccupazioni per la propria salute.
I bisogni di assistenza aumentano; la parità della coppia coniugale la protratta dipendenza dei figli dalla famiglia, sono punti nevralgici su cui la forza sconvolgente dell’informazione –handicap incide con effetto destabilizzante.
Se la moglie/madre non lavora fuori casa, il figlio sarà estremamente dipendente e catturerà molta parte del suo tempo, fagocitando le possibili aree di relazione extradomestica; nel caso in cui tali aree le riuscissero più di peso che di gratificazione, quella madre potrà adeguarsi senza troppa sofferenza all’aumento del proprio impegno domestico.
La sua dedizione al figlio le permetterà infatti di acquisire il senso della propria utilità , nonché una dignità maggiore agli occhi del marito, dei nonni e dei parenti.
Giunto però il momento di affidare ad altri il proprio bambino per favorirne lo sviluppo, con l’invio per esempio alla scuola materna, essa potrà sentirsi di nuovo sola ed inutile; inconsapevolmente, allora, quella madre potrebbe trattenere il figlio dall’emanciparsi, avviandolo pian piano alla carriera di bambino problematico, assai più di quanto faccia la sua eventuale compromissione.
Se il marito lavora fuori casa (coppia complementare) potrebbe facilmente essere accusato dalla moglie di starsene fuori casa a lavorare, mentre lei si sacrifica e si stressa con i figli ( ottica colpevolizzante).
Esistono anche situazioni interattive di felice relazione complementare, dove il marito supporta la moglie, aiutandola a credere in se stessa e appoggiando con stima le sue iniziative per il figlio.
Consideriamo invece il caso di una coppia simmetrica rispetto all’attività lavorativa in cui nasca un figlio compromesso; la madre che ha un lavoro extradomestico, si scontra con enormi problemi di gestione del figlio.
Sebbene i datori di lavoro concedano più facilmente permessi per problemi di salute dei figli alle madri che non ai padri, tuttavia la richiesta di una riduzione di orario o di permessi straordinari per seguire la riabilitazione di un figlio è molto mal tollerata.
Accade così che madri interessate al proprio lavoro si trovino improvvisamente ad un bivio esistenziale penosissimo; il dover scegliere tra due cose importanti come il bene del proprio figlio e la propria realizzazione personale.
Spesso la comunità e anche il padre si dimenticano di ricompensare la donna che ha fatto una scelta oblativa, lasciandola sola ad affrontare la depressione conseguente alla perdita della propria identità sociale a cui magari si era preparata fin da giovane con lo studio, il lavoro e grandi sacrifici.
Il padre potrebbe sostenere la moglie a non abbandonare il suo impiego, assumendosi una parte del lavoro domestico e impegnandosi di persona con il figlio; di conseguenza la moglie, sentendosi capita e aiutata, potrà più facilmente trovare una soluzione compatibile con le esigenze proprie e quelle del bambino.
Ciò può avvenire soltanto se il marito condivide autenticamente il progetto esistenziale che la moglie ha per se stessa; se invece costui ha soltanto subito l’emancipazione della moglie, intimamente desiderandola più dipendente, può utilizzare le esigenze assistenziali del figlio disabile per soddisfare tale desiderio.
L’handicap si presta meravigliosamente ad essere un paravento dietro cui si possono nascondere fini occulti di controllo e potere.
A volte è la moglie a non chiedere aiuto al marito sospettandolo immaturo ed incapace; questi, in un primo momento potrà sentirsi sollevato dal non dover modificare le proprie abitudini di vita ma con l’andar del tempo potrebbe reagire con rabbia per sentirsi escluso da aree decisionali.
Anche nei casi fortunati, nei quali i coniugi riescono a non perdere il senso del loro essere coppia, conservando l’alleanza coniugale come punto di forza per sostenersi reciprocamente, il problema di sentire che il figlio sarà in difficoltà a emanciparsi da loro pone un’altra carica di ansia nel proiettarsi verso prospettive future.
Il figlio con handicap, fin da neonato, viene percepito come un “perpetuo terzo” ; può così accadere che il ruoli di genitori soppianti radicalmente quello di coniugi, con perdita per entrambi di uno spazio indispensabile all’esperienza “duale”.
21 settembre 2015
Dott.ssa Annamaria Albani
Servizio Liberamente Cooperativa Il Millepiedi